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Coronavirus, il ‘bergamasco’ Ottavio Bianchi: “Qui si muore e il Calcio parla di calendari”

E’ un messaggio di profonda partecipazione all’immenso dolore di una comunità. E’ l’emozione di una persona che vede una sofferenza notevole intorno a sé e che lancia un ringraziamento a quanti nel silenzio compiono fino in fondo il proprio dovere

Quello che sta vivendo Bergamo è un autentico dramma: centinaia di morti per il coronavirus. I giornali locali con decine di pagine di necrologi. I morti portati via sui camion dell’esercito. Un figlio (adottivo) di Bergamo è Ottavio Bianchi, l’allenatore che ha guidato il Napoli al primo scudetto della storia azzurra a metà degli anni ’80. L’uomo che ha vissuto l’epopea di Diego Maradona nel capoluogo campano. A Napoli lo ricordano pure per aver vinto la Coppa Uefa e la Coppa Italia. E pure a Roma, alla guida dei giallorossi, hanno un dolce ricordo di OttavioBianchi: nella capitale vinse infatti la Coppa Italia.

Lunedì, a 76 anni, ha raccontato a Radio Kiss Kiss Napoli e al quotidiano “La Stampa” la terribile esperienza che si sta vivendo nella Bergamasca: “Una cosa così non si è vista neanche nella Seconda Guerra Mondiale. Gli ospedali sono intasati, medici e infermieri fanno di tutto e di più, ma alle volte devono scegliere chi mettere in terapia intensiva e chi no”.

L’ex giocatore e allenatore prosegue: “Non me lo sarei aspettato nel 2020. E’ davvero terribile in tutti i sensi, anche perché non si vede sbocco. Adesso tutti parlano, ma sarebbe il momento di parlare poco e tentare di uscire con le ossa meno rotte possibile. Ci sono aziende che chiudono, famiglie che trovano difficoltà. Dopo le morti, ci sarà il problema della sopravvivenza. E parlare di calcio in questo momento è significativo, vuol dire che il nostro calcio è gestito da persone che non si smentiscono mai”. 

Ottavio Bianchi conferma la sua grande sensibilità nell’intervista rilasciata a Gigi Garanzini:

“Vedo le bare sui camion e piango. E mi domando: perché la mia Bergamo? Meno di un mese fa mi chiamavano per parlare dell’Atalanta, ora ricevo telefonate da amici e conoscenti dell’Ungheria, dell’Argentina e della Russia per sapere innanzitutto se sono vivo. E come riusciamo a tirare avanti”. Dice ancora: “Le persone muoiono e nel calcio si parla di calendari: sono alieni”. 

Spiega: “Sono qui da solo, a Bergamo Alta, ho dovuto rinunciare alla signora che dava una mano in casa. Non posso vedere i miei figli, mi lasciano da mangiare e qualcosa da leggere sul pianerottolo. Non ero uno da pianti, ora le lacrime arrivano a tradimento. Mi chiedo perché migliaia di morti che se ne vanno da soli, senza il conforto di una mano, di uno sguardo. So cosa vuol dire essere in rianimazione, intubato, mi è successo qualche anno fa di essere appeso a un filo. E mi sembravano eroi già allora quelli che mi assistevano 24 ore su 24: oggi lo sono per tutti, ma intanto li hanno mandati in guerra disarmati e quanti ne muoiono a loro volta per salvare gli altri. Poi senti i parolai: abbiamo ordinato questo, abbiamo ordinato quest’altro, anche io ordinavo di vincere quella partita, ma erano per l’appunto parole. Un giorno qualche risposta ce la dovranno pur dare, i parolai, quelli che hanno tagliato la sanità pubblica per cominciare. E la dovranno innanzitutto a questi eroi che rischiano la loro vita sino allo stremo delle forze”.

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